Intervista a Fabio Geda
da Redazione | 25/05/2019
- In quale circostanza ha conosciuto Enaiat e come è nata l’idea di far diventare la sua storia un libro?
Ci siamo incontrati durante una presentazione del mio primo romanzo. Lui era stato invitato a fare da controcanto, con la sua storia vera, alla storia da me inventata di un ragazzino romeno che viaggiava da solo, in Europa, per cercare suo nonno. Quando l’ho sentito parlare, e raccontare, ho percepito una grande sintonia tra il suo sguardo leggero, persino ironico, sulle proprie drammatiche vicende, e quello che io tentavo di fare con la mia scrittura. In quel momento, quella sera stessa, “Nel mare ci sono i coccodrilli” ha cominciato a nascere. Dopo quell’incontro abbiamo continuato a sentirci e quando ho capito che a lui avrebbe fatto davvero piacere condividere la sua storia allora ci siamo messi a lavorare al libro.
- Hussein Alì è convinto che nel mare ci siano i coccodrilli e ne ha paura perché non sa nuotare. Chi sono in realtà i coccodrilli?
Il titolo nasce da questa considerazione: il fatto che quel giorno, su quella spiaggia, in Turchia, ci fosse qualcuno che aveva paura dei coccodrilli, che non c’erano, quando invece c’erano molte cose vere di cui avere paura, come la polizia o i traghetti enormi, è la prova definitiva che quella persona era un bambino. Perché avere paura delle cose che non ci sono, tipo il mostro nell’armadio, o i fantasmi, è un atteggiamento tipico dell’infanzia. Ma di solito i bambini hanno degli adulti accanto a loro, pronti a spiegare che il mostro nell’armadio non c’è, e che i fantasmi non esistono. Ma quel giorno, su quella spiaggia, gli adulti erano assenti. Noi, non c’eravamo. Ecco, il titolo è un grido di allarme: perché gli adulti, in certi posti del mondo, continuano a essere assenti?
- Sono passati quasi trenta anni dalla terribile “fuga” di Enaiat. Che cosa è cambiato da allora in Afghanistan?
La situazione è ancora drammatica. Ogni giorno il Paese è squassato da attentati, il sistema scolastico è pessimo, l’economia ristagna. Forse non sono più i Talebani, il problema principale, ma comunque la nazione è ostaggio di gruppi di guerriglieri e di lotte intestine che lo rendono un luogo pericoloso da cui tanti cercano continuamente di scappare.
- L’emigrazione esiste da sempre ma oggi è vissuta con grande disagio dai Paesi in cui sono diretti coloro che fuggono dalla guerra, dalla povertà o dalle dittature. Secondo lei, perché si ha tanta paura dello straniero? Che cosa si potrebbe fare per aiutare chi non ha lavoro, cibo e diritti e, in particolare, i minori che emigrano senza famiglia?
Il problema di base credo sia semplice: sia chiama egoismo. Le popolazioni che hanno raggiunto un certo livello di benessere non sono disposte a rinunciare a una parte della loro ricchezza per far stare meglio quelle più povere. La ricchezza sarebbe da redistribuire, ma chi ha di più si tiene stretti i propri privilegi a scapito di chi ha di meno. Lo straniero ci fa paura quando pensiamo che venga a toglierci qualcosa, quando pensiamo che la sua presenza possa peggiorare la qualità della nostra vita. Un bravo medico straniero non ci dà fastidio, ovviamente, perché pensiamo possa esserci utile. Ci danno fastidio i mendicanti, invece. Chi ha di meno. Chi è meno istruito. E finisce che le nazioni più ricche invece che far la guerra alla povertà la fanno ai poveri.
- A quale libro sta lavorando in questo momento?
A una storia su quando i genitori invecchiano e i figli vanno via di casa.